
Il Ritratto è una Danza
Questo articolo è tratto da Oltre le Regole, il mio libro dedicato alla fotografia come esperienza consapevole, relazione viva e gesto creativo prima ancora che tecnico.
In fotografia, il ritratto non è soltanto un'immagine: è un incontro. Dentro ogni ritratto si cela un mondo complesso e sfaccettato, un microcosmo in cui convivono sensibilità, storie, emozioni e relazioni. Non esiste una formula universale per ottenere un grande ritratto. Non c’è una tecnica infallibile, né una regola di composizione da seguire alla lettera. C’è invece una sola costante: la relazione tra fotografo e soggetto.
Stili diversi, stessa intenzione: l’umano al centro
Pensiamo ai grandi nomi della ritrattistica: Richard Avedon, Irving Penn, Joe McNally, Albert Watson… Stili diversi, visioni opposte, approcci tecnici spesso incompatibili. Eppure tutti sono riusciti a raccontare l’umano con profondità, con quella scintilla che rende unico ogni scatto. Ma dove si nasconde, allora, il segreto del ritratto?
Il ritratto come incontro, non come tecnica
Forse la chiave è proprio nell’incontro. Fotografare un volto significa entrare in relazione. Non basta catturare un’espressione: bisogna condividere un momento, vivere un’atmosfera, stabilire una fiducia reciproca che permetta a entrambi – fotografo e fotografato – di uscire dalla propria zona di comfort.
Il metodo Avedon: attesa, silenzio, verità
Prendiamo ad esempio Richard Avedon. Nei suoi ritratti in studio, spesso lasciava che il tempo si dilatasse, restando in silenzio davanti al soggetto. Non aveva fretta di scattare: osservava, aspettava. Creava una tensione, a volte anche scomoda, che portava lentamente il soggetto ad abbassare le proprie difese. Il suo intento non era tanto quello di cogliere l’immagine più “bella”, quanto piuttosto quella più vera.
Come racconta Philip Gefter nella sua biografia (What Becomes a Legend Most, 2020), Avedon concepiva il ritratto come un confronto emotivo, psicologico: restava all’erta, spesso in silenzio, aspettando che qualcosa affiorasse – uno sguardo, un cedimento, una verità.
L'esperienza di In the American West
In particolare, nel volume In the American West (1985), Avedon descrive le sue lunghe sessioni con i soggetti come momenti di scavo e attesa: tempi estesi, silenzi prolungati, una tensione crescente. Il suo obiettivo era rompere le difese della persona ritratta, superare le maschere e arrivare a quella che lui chiamava una “verità psicologica”. Non era un approccio neutro o passivo, ma un vero e proprio dispositivo relazionale in cui il fotografo diventa parte attiva di ciò che si rivela nell'immagine.
Il ritratto come danza relazionale
Per questo mi piace pensare al ritratto come a una danza. Un passo a due fatto di sguardi, pause, piccoli gesti. Non c'è un copione da seguire, ma una sintonia da costruire. Il fotografo guida e si lascia guidare, propone e ascolta, osserva e accoglie. La buona riuscita di un ritratto non dipende dalla luce perfetta o dalla posa più efficace, ma dalla qualità dell’incontro umano che lo precede.
“A portrait is not made in the camera but on either side of it.”
— Edward Steichen
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