
Lusinghe di like: fotografia, imitazione e ricerca di consenso
A tutti piace fare bella figura. È umano. E oggi, grazie (o a causa) dei social, questa spinta ha trovato uno spazio sconfinato dove esprimersi, alimentarsi e talvolta distorcersi. Ogni post è un’esibizione. Ogni immagine, un possibile biglietto da visita. Il like è diventato la forma più rapida di approvazione sociale.
Tra tutti i linguaggi visivi, la fotografia si è imposta come la merce di scambio più efficace in questo grande baratto di attenzione e consenso. Una bella foto può farci apparire talentuosi, sensibili, artisti completi. E più è riconoscibile il suo stile, più è probabile che venga apprezzata da chi ha già imparato a leggerlo.
Ma veniamo a noi fotografi – professionisti, appassionati, autodidatti, studenti: nelle comunità fotografiche, reali o virtuali, questa dinamica si amplifica. Qui non si cerca solo approvazione generica, ma validazione da parte dei “pari”. Non bastano i like del pubblico: serve il riconoscimento degli altri fotografi. Serve “essere visti” come bravi, capaci, originali.
E così, accanto alla passione e alla ricerca, si insinua spesso una competitività sotterranea, a volte esplicita. Si cerca il plauso degli altri fotografi, il riconoscimento degli “addetti ai lavori”. E, in questo contesto, imitare funziona – soprattutto quando l’originale è sconosciuto ai più.
Un esempio reale (che fa pensare)
Proprio oggi ho visto girare sui social la foto di un fotografo amatoriale che ha pubblicato un ritratto struggente di un senzatetto. La luce, l’inquadratura, persino la post-produzione: tutto richiama fortemente le celebri immagini del progetto Homeless di Lee Jeffries. Eppure nei commenti si sprecano i complimenti per la “potenza espressiva” e l’“idea geniale”. Nessuna menzione al riferimento. Nessuna domanda sull’originalità dell’immagine.
Il post ha raccolto centinaia di like e commenti entusiasti, a conferma di quanto possa essere potente – e premiante – il semplice attingere a uno stile già collaudato. Ma il punto non è solo “chi copia”. Il punto è che nessuno, o quasi, riconosce la fonte. Jeffries è un autore noto agli appassionati, ma sconosciuto a molti. Chi scopre oggi una sua immagine e la replica, può ricevere lodi sincere da chi non sa. E così una copia riesce a brillare come se fosse nuova, grazie a un pubblico ignaro e generoso.
Quando l’imitazione diventa strategia (anche tra i professionisti)
Questo fenomeno non riguarda solo i fotografi alle prime armi, ma si estende anche a professionisti affermati, che studiano tecniche di grandi autori (a volte anche attraverso corsi online), le assorbono e poi le ripropongono come se fossero frutto della propria ricerca personale. Non solo: su quella base costruiscono la propria offerta formativa, vendendo corsi e workshop come se si trattasse di un metodo originale, personale, innovativo.
Che sia chiaro: ispirarsi, imparare, assorbire, ripetere per allenarsi è lecito e, anzi, necessario in un percorso di crescita fotografica. Ma presentare come propria un’estetica altrui, senza alcuna citazione, contesto o onestà intellettuale, è un gesto scorretto. Non è solo una questione etica: è un impoverimento culturale che si riflette sulla qualità della fotografia che circola e si insegna.
Studiare per vedere meglio
Non si tratta di accusare, né di fare i censori del gusto o dell’originalità.
La fotografia è un linguaggio, e come ogni linguaggio si impara anche copiando, provando, ripetendo. Ma crescere come fotografi significa anche imparare a riconoscere le voci degli altri, saperle distinguere, citarle, rispettarle.
Studiare gli autori, scoprire chi ha fatto cosa, nutrire la propria curiosità visiva è il primo passo per liberarsi dall’imitazione inconsapevole e costruire una voce personale, solida, onesta.
Ma per farlo davvero serve anche una guida competente: qualcuno che non abbia paura di proporre riferimenti, autori, nomi e stili senza spacciarli per propri, e che abbia la vocazione per la formazione – quella vera – in cui si mette al centro la crescita dell’altro, non la propria visibilità.
È anche l’unico modo per dare un valore reale al consenso che riceviamo o che offriamo. Perché applaudire un’idea originale e applaudire una copia non è la stessa cosa. E sapere la differenza non rende più severi, rende solo più lucidi.
📘 Glossario minimo per chi fotografa (e guarda fotografie)
Ispirazione
Riconoscere in un altro autore qualcosa che ci smuove, ci parla, ci guida. È il punto di partenza di ogni linguaggio, non un punto d’arrivo.
Imitazione
Ripetere forme, pose, stili, atmosfere. Può essere un ottimo esercizio se fatto con consapevolezza, ma non ha valore creativo in sé.
Citazione
Un gesto consapevole e onesto: rifare qualcosa sapendo (e dicendo) da dove viene. Può essere una forma d’omaggio o un modo per dialogare con l’autore originale.
Appropriazione
Prendere elementi visivi altrui e farli propri. È una pratica artistica legittima, ma solo se dichiarata e pensata come tale.
Plagio
Presentare come proprio qualcosa che non lo è, senza dichiararne l’origine. In ambito fotografico è più frequente di quanto si creda, anche in buona fede.
Originalità
Non è inventare dal nulla, ma combinare ciò che si è assorbito in modo nuovo, personale, riconoscibile. È un processo, non un punto di partenza.