
Una scelta in controtendenza per un fotografo di professione
Sono fotografo professionista da oltre quindici anni, e negli anni ho sviluppato un’abitudine piuttosto inusuale per chi, come me, ha fatto dell’immagine il proprio linguaggio e il proprio mestiere.
Ebbene sì… lo confesso: quando vado in vacanza non porto mai la macchina fotografica.
Non è una rinuncia, né una provocazione. È una scelta consapevole.
Ho capito nel tempo che i momenti di vacanza servono più al mio spirito che alla mia professione. Ed è proprio per proteggere quella dimensione privata, personale, che la fotocamera resta a casa.
Quando scattare ci separa dalla realtà
Perché vi scrivo questo oggi?
Navigando in rete, mi sono imbattuto in queste parole del filosofo Umberto Galimberti:
“Fotografiamo tutto: noi stessi nello specchio dell'ascensore, un tramonto, un'alba, di fatto non vivendo mai in modo diretto la realtà, ma pensando all'inquadratura. A frapporre fra noi e la vita un congelatore di immagini e sensazioni, che accumuleremo in una memoria digitale destinata a non essere consultata mai, perdendoci così il sapore vero della vita.
Quando si va per musei ad esempio si tende più a fotografare le opere e condividerle sui social, piuttosto che a godersi la visita: così si finisce per appiattire l’intera esperienza riducendola alla visione di uno schermo.
Siamo passati dall’era dell’homo sapiens a quella dell’homo videns che, spostandosi dall’essere all’avere, soggiace alla necessità di fotografare qualsiasi cosa in qualsiasi momento.
Per gli antichi il «qui ed ora» era la saggezza più grande. Forse dovremmo tornare a farlo anche noi, a vivere il momento nel momento.”
In maniera lucida e potente, Galimberti esprime il percorso culturale e mentale che mi ha portato a questa risoluzione: la fotografia può diventare una barriera tra noi e il presente, una forma di archiviazione compulsiva che rischia di svuotare di senso l’esperienza vissuta.
Dall’essere all’avere: una trasformazione culturale
Viviamo un tempo in cui ogni cosa sembra esistere solo se fotografata e condivisa. Il passaggio dall’homo sapiensall’homo videns, come lo definisce Galimberti, racconta proprio questo: ci spostiamo dall’essere all’avere, dall’esperienza autentica alla sua rappresentazione. E così, invece di vivere, archiviamo.
Anche la fotografia ha bisogno di un tempo giusto
Non fraintendetemi: amo profondamente la fotografia. Ma proprio per questo ho imparato a rispettarne il tempo e il contesto.
Fotografare richiede presenza, sì, ma anche distanza, lucidità, uno sguardo che elabora. E non ogni momento della vita deve diventare materia prima per il lavoro o per i social.
Alcuni attimi devono restare semplicemente nostri. Privati. Vissuti.
Un tempo per mio figlio, un tempo per me
In particolare, i preziosi momenti che trascorro con mio figlio — quelli che lui chiama “fare cose insieme” — voglio che siano scolpiti emotivamente, non digitalmente.
In tasca tengo al massimo il telefono, usato con parsimonia. Non come strumento di accumulo ossessivo, ma come possibile mezzo per “emotion recollected in tranquility”, per dirla con Wordsworth: emozioni rivissute nella quiete del ricordo.
Conclusione: prima lo sguardo, poi lo scatto
Tutto questo mi ricorda che lo sguardo viene prima dello scatto.
Che la memoria, se nutrita con attenzione e verità, può essere più viva di qualsiasi archivio digitale.
Il mondo, se lo lasciamo entrare davvero, sa imprimersi nella mente e nel cuore meglio di qualsiasi sensore.